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PRESENZE CRISTIANE A TRIORA

I monaci benedettini, dediti alla preghiera, al lavoro dei campi ed allo studio, furono i primi ad evangelizzare l’alta valle Argentina. Seguendo la regola, divenuta famosa, ora et labora, si spinsero nell’entroterra, finanche nelle zone più impervie, per fondare i loro monasteri. Sorse così, ad Aigovo, nel secolo XI, un edificio dedicato ai santi Faustino e Giovita, fratelli bresciani assurti a patroni della Leonessa d’Italia.

Nello stesso periodo veniva edificata a Triora la chiesa dei Santi Pietro e Marziano martiri; quest’ultimo, vescovo di Tortona, è spesso associato nelle narrazioni agiografiche a Faustino e Giovita. Se della prima collegiata triorese, sciaguratamente demolita per la costruzione di una piazza d’armi, rimangono solo lastre di pietra nera, avanzi di capitelli e tre tavole tardo trecentesche, fra cui il celebre Battesimo di Cristo di Taddeo di Bartolo, firmato e datato 1397, dell’originaria chiesa di San Faustin, pur trasformata nei secoli e recentemente defraudata, restano due monofore tamponate nel fianco destro ed un portale laterale in conci porosi di tufo.

Se al culto per questi santi di origine bresciana e tortonese aggiungiamo la devozione verso San Dalmazio, al quale venne dedicato un edificio incorporato in una delle cinque fortezze trioresi, ne ricaviamo l’impressione di una fede che, travalicando i monti, raggiunse i vari borghi che andavano costituendosi. Praticamente ogni paese o villaggio ebbe ben presto la sua chiesa. I più consistenti vennero eretti in parrocchie, mentre in altri luoghi sorsero semplici ma commoventi oratori, oggetto costante di attenzioni e cure. Lungo le mulattiere ed i sentieri impervi vennero progressivamente edificate cappelle od anche semplici piloni devozionali, qui chiamati geixette.

Molto conosciuto è il santuario di San Giovanni del Prato (oggi erroneamente chiamato dei Prati) cui fanno riferimento sia le popolazioni dell’alta valle Argentina che quelle dell’alta val Nervia. Il 24 giugno di ogni anno code di pellegrini raggiungono il vetusto edificio, assistendo alle numerose sante messe celebrate e recitando rosari girando per nove volte attorno al santuario. Dell’antica usanza, descritta anche in triorasco dal padre Francesco Ferraironi e citata nella famosa guida di Edward e Margaret Berry Alla porta occidentale d’Italia, edita dall’Istituto di Studi Liguri nel 1963, non è rimasto nulla, se non l’allegria contagiosa, culminante in canti popolari.

Nella piazza centrale dell’antico borgo di Triora, dedicata al beato Tommaso Reggio, arcivescovo di Genova, a fianco della collegiata dell’Assunta, si trova l’oratorio del Precursore. Terminato nel 1677, sostituì quello tetro ubicato sotto l’attuale chiesa parrocchiale, dove i Battuti pregavano e si flagellavano ad espiazione dei loro peccati. Al suo interno è collocata una vera e propria pinacoteca, con quadri di valore di Luca Cambiaso, di Battista e Lorenzo Gastaldi, di un seguace di Domenico Fiasella e con una tavola, raffigurante San Nicola di Tolentino, eseguita da “un maestro che si muove nell’alveo dell’attività tarda di Giovanni Mazone, forse il figlio Antonio, pur mostrando una certa sensibilità ai più aggiornati influssi lombardi”. L’altare ligneo è un vero e proprio gioiello, scolpito magnificamente dal molinese Giovanni Battista Borgogno, detto il Buscaglia; esso racchiude perfettamente una tela, la Natività di San Giovanni Battista, firmata e datata 1682 da Lorenzo Gastaldi, secondo Gianni Bozzo l’opera di maggior impegno dipinta dal pittore triorese. Nell’oratorio è posta una pregevole statua del santo titolare, secondo la tradizione commissionata, verso l’anno 1725, dalla locale confraternita dei Battuti al sommo scultore Anton Maria Maragliano.

Maestosa, la collegiata è un’ulteriore testimonianza dell’antico splendore del borgo medievale di Triora. Della primitiva chiesa a tre navate e con il campanile a cuspide, com’era raffigurata nei pochi disegni tramandatici, non restano che pochi segni; il portale a sesto acuto con blocchi di pietra nera, alternati ad altri di marmo bianco, parla di un antico e glorioso tempio cristiano. L’antica facciata neoclassica, rifatta a nuovo nel 1770 sotto la direzione dell’architetto Andrea Notari, ha purtroppo cancellato i lastroni di pietra nera e le pitture raffiguranti la Madonna, San Giovanni Battista e San Dalmazzo. Dal 1556 sede della Parrocchia, trasferitavi dalla declinante San Pietro e Marziano martiri fuori delle mura, la Collegiata, ridotta ad una navata negli anni dal 1770 al 1775, ebbe grandissima importanza quale chiesa matrice, alla quale cioè erano sottoposte le decine di parrocchie o rettorie esistenti sul vastissimo territorio. Lunga ben 38,50 metri, larga 12,10 e con un’altezza di 17, custodisce nel suo interno importanti opere d’arte.
Nel battistero è conservata l’opera più pregevole esistente in Triora. Il Battesimo di Cristo, dipinto nel 1397 dal senese Taddeo di Bartolo, faceva probabilmente parte di un trittico cuspidale, come si può supporre dalla mancanza ai lati di una vera cornice. Particolarità del quadro è che è stato così firmato: Tadeo de Senis pinxit hoc opus M.CCC.L.XXXX.VII. E’ il più antico, datato e firmato, della Liguria di Ponente.
L’altar maggiore venne sistemato ex novo quando, a causa della soppressione della chiesa di San Francesco, molto materiale venne trasportato nella Collegiata. Con i marmi policromi vennero infatti edificate due cappellette laterali, formanti tutto un insieme con i due portali dai quali dal presbiterio si accede al coro. Sopra gli stalli di questo si alza maestosa l’ancona dell’abside, bene inquadrata, in una sorta d’altare aereo in stucchi dorati, con colonne addossate a pilastri o lesene sorreggenti un architrave dal frontone spezzato, sulle ali del quale stanno due angeli che sembrano sorreggere la grande raggera, con il monogramma di Maria al centro, elevantesi sopra il cornicione della chiesa. Ai lati ed alla base di questa costruzione stanno due statue in stucco raffiguranti i Santi Giovanni e Paolo martiri, risalenti al 1789. Il quadro dell’ancona, l’Assunzione, risale al 1680 ed è opera del pittore triorese (1625-1690) Lorenzo Gastaldi. Esso rappresenta una splendida e fedele copia del quadro del bolognese Guido Reni esistente nella chiesa di Sant’Ambrogio a Genova.
Di pregevole fattura le due tavole ai lati dell’altare, riferibili agli inizi del secolo XV. Quella e destra, la Pietà, raffigura Cristo morto compianto dalla Madonna, dalla Maddalena, da San Giovanni Evangelista e dalle Pie Donne. Con ogni probabilità eseguita in Genova, la tavola (cm. 170 x 90), che originariamente dovette costituire lo scomparto centrale di un polittico di non piccole dimensioni, è un’ulteriore testimonianza del tardo gotico già rappresentato dal Battesimo di Taddeo di Bartolo; in basso è un’iscrizione di carattere sacro, in caratteri franco-gallici, di difficile lettura.
La tavola a sinistra, invece, ha una storia singolare. Nel corso dei lavori di restauro nell’anno 1949, sotto la pittura dell’Ecce Homo applicatavi nel secolo XVI per rendere consono il quadro al culto delle Anime Purganti, la radiografia scoprì la preesistente figura di San Giacomo il Minore, figlio di Alfeo, barbuto, con bordone da pellegrino cui è appeso il cappello; il tutto su sfondo dorato e suddiviso da lineette a guisa di rete. Tuttavia i simboli del bastone e del cappello spettano a San Giacomo Maggiore, pellegrino in Spagna, come lo raffigurò il Caravaggio in un dipinto conservato nella pinacoteca di Chiari (Brescia). Il dipinto (cm. 150×73), che certamente dovette costituire lo scomparto centrale di un polittico, ripropone gli schemi compositivi introdotti da Taddeo di Bartolo, rivelando tuttavia, nel panneggio ridondante del prezioso manto del santo, una ricerca di effetti decorativi che rimandano alla tradizione lombarda, che inducono a collocare la datazione della tavola al 1435 circa.
Sopra all’altare si eleva un antico crocifisso ligneo di ignoto scultore, mentre appoggiato alla balaustrata marmorea, recante la data del 1737, è un pregevolissimo Cristo del secolo XIV avanzato, con qualche influsso francese ma sicuramente eseguito in Italia. Particolarmente venerato, viene trasportato verticalmente (pesa oltre 60 chili) sul Monte delle Forche la seconda domenica dopo Pasqua. Sul pulpito, costruito in muratura e stucchi dorati, è esposto un crocifisso in legno, eseguito in Genova nel 1762 da Giovanni Maragliano. Da questo pulpito predicarono San Vincenzo Ferrer e San Bernardino da Siena. Quest’ultimo, in occasione della sua visita nel 1418, lasciò in Triora, che chiamò “piccola patria”, una tavola di noce con apposto il trigramma (IHS) intrecciato del nome di Gesù, contornato da un cordone francescano.
Anticamente dedicato alle Anime Purganti, il secondo altare a sinistra venne consacrato al Sacro Cuore dopo che la Diocesi di Ventimiglia, in seguito al disastroso terremoto del 1887, fece voto di celebrare ogni anno, come se fosse di precetto, la festa del Sacro Cuore di Gesù. Una lapide marmorea, dettata dal canonico Callisto Amalberti della Cattedrale di Ventimiglia, ricorda ai posteri tale importante evento. L’altare in marmo venne costruito nel 1901 dall’artista sanremese Faraldi Rocco, in occasione della collocazione, sotto la mensa dell’altare stesso, di un’urna contenente una parte importante delle reliquie di San Giovanni Lantrua, missionario francescano nato nella vicina Molini e martirizzato in Cina nel 1816.
Assai alto (circa 38 metri) e slanciato è il campanile dove sono poste quattro campane, una “grossa” e tre “piccole”, che, prima di essere elettrificate, emettevano un caratteristico suono, che variava a seconda da chi le manovrava; la gente, non appena udito il rintocco delle campane, sapeva subito chi le stava suonando.

Risalendo da Molini verso Triora, la prima chiesa che si incontra è quella della Madonna del Buon Viaggio, non molto antica. Degna di nota è una statua marmorea della Madonna di ottima fattura, posta sull’unico altare, trasferitavi dalla Collegiata dell’antico borgo.

Prima di giungere tra le case annerite, è un’altra chiesa, quella della Madonna delle Grazie. L’idea di erigerla fu di un frate triorese, padre Giorgio Ausenda che, impressionato dal numero di pellegrini che veneravano il pilone devozionale e la cappella dedicata alla Vergine delle Grazie a Vicoforte di Mondovì, iniziò a costruire i muri di sostegno dello spiazzo sul quale costruire il tempio, quindi vennero poste le fondamenta ed alcune parti dei muri. La vecchiaia e la mancanza di fondi costrinsero il frate a cedere la proprietà al nobile Fabrizio Velli, che completò la chiesa nella primavera del 1622, arricchendola di un’ancona, con il Cristo, la Madonna delle Grazie, San Giovanni Battista (secondo la commissione, il pittore Battista Gastaldi avrebbe dovuto raffigurare anche i santi Francesco e Domenico, ma non sono visibili perché forse la parte inferiore è stata asportata). La piccola chiesa è mantenuta grazie alla generosità ed alla devozione di alcuni abitanti, in particolare di quelli del carugiu sutan.

Molto più interessante ed antica è la chiesa di San Bernardino, sorta secondo la tradizione su un preesistente edificio, dedicato a San Bartolomeo Apostolo. Soltanto a seguito della sua predicazione a Triora, avvenuta nel 1418, i Trioresi, scossi dai sermoni del frate senese,  decisero di intestargli l’edificio sacro. Ad impressionarli e a convincerli fu anche un miracolo: San Bernardino, oltrepassata Triora, giunto nei pressi di Loreto, alla vista di un furfante che aveva rubato un agnello, gettandolo nelle fiamme, riuscì per virtù suprema a richiamare in vita la povera bestiola, riconsegnandola al padrone.

Vero richiamo della chiesa non è la sua architettura, con il caratteristico pronao, bensì gli affreschi ivi esistenti, riportati in parte alla luce, grazie ad alcuni volenterosi, fra cui il giovane padre Francesco Ferraironi, agli inizi del XX secolo. Lavori consistenti, avvenuti nel 1938, negli anni Sessanta e dal 1996 al 2006, permisero, oltre il consolidamento dell’edificio ed il rifacimento del tetto, il recupero di ulteriori scene. Nonostante la mancanza di parte degli affreschi, si possono individuare tre distinte campagne di lavori che hanno visto all’interno dell’edificio altrettanti pittori, che in epoche diverse hanno realizzato i vari cicli.

Le tre fasi realizzative si possono inquadrare nell’arco di mezzo secolo, precisamente dal 1466, data del completamento delle pitture nell’emiciclo absidale, ai primi decenni del XVI secolo, anni a cui appartengono le scene riguardanti la Passione di Cristo. Alla prima fase appartengono i dipinti raffiguranti l’Annunciazione, Cristo in gloria, i simboli degli evangelisti e due santi ed una teoria di Apostoli.  Fra i possibili autori di questo primo ciclo sono il Baleison ed il maestro di Lucéram, pittore anonimo operante nel ponente ligure attorno alla metà del XV secolo. Il secondo cantiere è quello del meraviglioso Giudizio universale, al quale potrebbe aver lavorato anche il pinerolese Canavesio, al quale erano state attribuite in passato tutte le pitture, oppure i fratelli Biasacci da Busca. Le scene della Passione e morte di Cristo, sulla parete sinistra e quella di controfacciata, sono da inserire cronologicamente nei primi decenni del XVI secolo, analogamente alla Crocefissione, ammirabile in tutta la sua integrità. Particolarmente efficaci il Limbo ed una barca nella tempesta, secondo alcuni un miracolo di San Bernardino, secondo altri uno dei primi ex-voto.  

Da via Dietro la Colla di Triora, dopo una ventina di minuti di cammino, si giunge alla chiesa di Santa Caterina d’Alessandria o a  quello che resta di essa. Edificata dalla famiglia Capponi sul finire del secolo XIV, oggi è purtroppo in rovina; si vedono ancora parte dei tre muri laterali, con due monofore rettangolari all’esterno e sormontate internamente da un arco a tutto sesto, con una tecnica in pietra da taglio raffinata e perfezionata; la facciata appare ancora pressoché integra, con un occhio tondo centrale strombato e soprattutto un portale con lo stemma gentilizio dei Capponi discalpellato ed una straordinaria iscrizione in maiuscole gotiche in parte abrasa, contenente in pratica la storia della chiesa. Il testo è noto grazie al prezioso libro di Gio Batta Ratti Descrizione delle pitture, sculture e architetture ecc. che trovansi in alcune Città, Borghi e Castelli delle due Riviere dello Stato Ligure, edito da Ivone Gravier nel 1780). Da esso, scritto dal notaio Manuele Sardo, si apprende che la chiesa venne costruita nell’anno 1390, a spese del fu Oberto Capponi, e dedicata a Dio, alla Santissima Trinità e a Santa Caterina. Si tramanda che ne fu posta la prima pietra nel quarto venerdì auspicale di novembre dal Vescovo Giacomo detto Sualense, il quale concesse indulgenze a chi la visitasse e la sostenesse, com’è confermato da una lettera scritta di suo pugno. In seguito il Sereno Cardinale Bartolomeo, per mandato del Papa Bonifacio IX, la dotò di molti doni scolpiti in una sua iscrizione. L’iscrizione è importante perché cita un vescovo Giacomo vissuto nel 1390, sconosciuto tra i presuli ingauni, ed identificato dal Ferraironi in Giacomo Hayas dei Predicatori, creato vescovo di Suelli (Cagliari) nel 1384. Il Rossi, invece, scrisse che fu il vescovo Giacomo Marzio a “collocare la prima pietra dell’elegante chiesuola di Santa Caterina dei Capponi di Triora”. Da notare infine che parte dell’iscrizione venne discalpellata da un membro della nobile famiglia nella metà del secolo XIX, per far scomparire le tre parole hanc donis multis, venendogli rinfacciato di essersi appropriato di beni appartenenti alla chiesa: era invece evidente come si trattasse di beni spirituali ovvero di indulgenze, concesse a chi visitasse il sacro edificio.

Lungo il piacevole percorso fra prati abbandonati, castagneti e pioppeti erano state costruite due altre chiesuole, oggi completamente crollate: quella di San Giacinto in località Ciaparaxe e quella di Sant’Onofrio, costruita nel 1601 dalla famiglia Oddo. Per fortuna, quasi a compensare queste lacune, alcuni volontari costruirono nel 1996 nell’incantevole regione Goina una chiesetta dedicata al Buon Pastore.  Pochi anni dopo, per celebrare il Giubileo, con l’ausilio di un elicottero venne issata sulla rocca soprastante la valle del Capriolo una gigantesca croce lignea. Purtroppo protesse i pochi pastori e le loro greggi solo per alcuni mesi, in quanto un fulmine la tranciò facendola precipitare, tra la costernazione dei fedeli.

Se da Triora ci dirigiamo invece verso occidente, dopo due chilometri giungiamo al santuario della Madonna di Loreto, segnato sulle antiche carte come Madonna delle Saline, probabilmente perché ivi avveniva lo scambio del sale.

Fu Giovanni Gastaldi, appartenente alla nobile famiglia triorese, ad edificare questo tempio alla Vergine, nella prima metà del XVI secolo. Membri della stessa casata contribuirono ad abbellire il santuario. Battista Gastaldi dipinse, probabilmente nel 1608, il quadro dell’ancona, con la Madonna ed il Bambino, con accanto i Santi Giovanni Battista e Giuseppe, mentre in alto stanno due angioletti; la lunetta raffigura l’Eterno Padre Benedicente, che richiama in modo inequivocabile Luca Cambiaso. La pala venne inclusa nel 1693 da Giovanni Battista Borgogno, il Buscaglia, in uno splendido altare ligneo dorato dal genovese Antonio Maria Vaccaro. Anche Lorenzo Gastaldi volle lasciare una sua testimonianza con una raffinata Annunciazione. 

A proteggere l’alta valle è dall’anno 1901 il gigantesco monumento al Redentore sul Saccarello, ad oltre duemila metri di altitudine. Per raccontare la storia di questa statua non basterebbero poche righe né poche pagine, densa com’è di avvenimenti ora felici ora tristi. Ci sia consentito ricordare la figura della nobildonna Margherita Brassetti che, seppur scettica sulla fattibilità e sull’opportunità di erigere un monumento di tali proporzioni, contribuì con ben diecimila lire, una somma veramente consistente per l’epoca. Ogni prima domenica di agosto vi si celebra una santa messa in ricordo dei pastori e dei montanari che non sono più su questo mondo. La cappella-rifugio, costruita nel 1927, contiene molte immagini, un dipinto del triorese Piero Filipetto, raffigurante il Sacro Cuore, altri quadretti, una piastrella giubilare dell’artista Diana Fontana, lettere, biglietti, lumini ed un registro con firme a testimoniare una fede atavica, resistente al trascorrere delle primavere.

Non sempre tuttavia le popolazioni dell’alta valle si dimostrarono religiosi nel vero senso del termine. In almeno due occasioni, sul finire del XVIII secolo e nella seconda metà di quello successivo, le autorità trioresi furono quanto meno ingenerosi verso l’incessante opera dei frati, in particolare degli Agostiniani e dei Francescani, scacciandoli dai loro conventi.

La storia della chiesa di Sant’Agostino è macchiata di sangue fin dall’inizio, quando il dottor Agostino Oddo, per mostrare la propria gratitudine verso i frati che l’avevano curato e consolato in Genova, dove aveva conosciuto l’onta del carcere con l’infamante accusa di tradimento verso la Repubblica, aveva deciso di devolvere tutti i suoi averi ai religiosi, a condizione che costruissero un convento nella sua patria natia, Triora. Il destino non permise al benefattore di vedere il suo sogno realizzato: la sera del 26 luglio 1615, mentre stava rincasando, venne circondato da alcuni individui armati, percosso a sangue e lasciato a terra senza vita. Si venne poi a sapere che erano stati i suoi parenti più stretti, la moglie in testa, ad assoldare persone senza scrupoli allo scopo di incamerare la consistente eredità, ammontante a circa tremila scudi.

La prima pietra fu posata nell’anno 1622, mentre veniva introdotta la regolare osservanza nell’oratorio provvisorio nei pressi della Collegiata; tre anni dopo, nel giorno della Circoncisione, nonostante i lavori non fossero del tutto terminati, i frati poterono trasferirsi nel loro convento. Quell’anno 1625 fu purtroppo tragico, perché Don Felice di Savoia, signore di Farigliano, figlio naturale del duca Carlo Emanuele I, al comando di numerose truppe franco-piemontesi, mosse alla volta della roccaforte di Triora, assediandola. Il 21 agosto il borgo era ormai stremato tanto da costringerlo ad arrendersi. Proprio quando si stavano firmando i capitoli, un religioso, padre Giovanni di San Nicola, nativo di Alba, alla vista di alcuni soldati francesi che stavano maltrattando alcuni abitanti, uscì dal convento, invitando i militi a cessare immediatamente le loro vili azioni verso persone inermi. Per tutta risposta i soldati lo ferirono barbaramente, lasciandolo esanime al suolo. Accorsero subito gli altri frati che, nonostante le gravissime condizioni, lo fecero adagiare in una cella del convento prestandogli le prime cure. La sorte di padre Giovanni era ormai segnata e cessò di vivere il 23 agosto, proprio quando si stava festeggiando l’insperata vittoria da parte dei Trioresi, dovuta ai soldati ausiliari della valle di Taggia, comandati dal capitano Gio Vincenzo Lercari.

Dichiarato Priorato dal Definitorio di Roma nel dicembre 1642, il convento di Sant’Agostino prese a funzionare a pieno ritmo e l’attività dei frati fu veramente encomiabile, sempre a servizio dei più deboli e bisognosi. Non mancarono certamente i problemi, a causa soprattutto dei numerosi lasciti testamentari in favore degli Agostiniani e della costrizione dei religiosi al pagamento delle decime alla parrocchia di Triora.

Il peggio doveva ancora venire. Nel 1794 infatti giunse il generale Andrea Massena con il suo esercito, ospitato come un monarca: portò con sé orrore, morte e desolazione. L’avversione verso gli oligarchi comportò la scellerata abrasione degli stemmi araldici sugli stipiti delle antiche abitazioni nobiliari, seguita dalla spogliazione di ogni ricchezza e dall’asportazione di importanti opere d’arte, finanche nelle chiese. Nel primo anno della Libertà Ligure, e precisamente il 14 settembre 1797, l’amministrazione comunale di Triora, letteralmente invasa da principi immorali e da idee rivoluzionarie, approvò all’unanimità una risoluzione contro i poveri frati agostiniani, rei di “consumare nell’ozio religioso un reddito di lire settemila e più”.

Nonostante le vibranti proteste della maggior parte del popolo, culminate in episodi di violenza, fra i quali l’aggressione al sindaco Francesco Carabalone, non vi fu nulla da fare ed i poveri frati vennero fatti sloggiare dalle loro celle, trovando una sistemazione provvisoria nel convento francescano. Era stato questo edificato nella località Sella, in una posizione invidiabile, ricca di vigneti e nelle vicinanze di una delle sette fortezze e della chiesa di San Bernardino. La chiesa annessa fu completata soltanto il 27 settembre 1630, quando il vescovo Pier Francesco Costa la consacrò con una cerimonia solenne. Vi sussistevano otto altari, sei dei quali appartenenti alle più importanti famiglie del luogo, ovvero i Borelli, i Verrando, i Buzzacarino, i Capponi, gli Oddo ed i Gastaldi. Fu proprio un appartenente a questa illustre famiglia, il pittore Lorenzo, a dipingere la bellissima ancona raffigurante il titolare della chiesa, rapito in estasi e sorretto da due cherubini.

I frati non si accontentarono di predicare ed operare in favore degli abitanti del capoluogo, bensì si recavano a celebrare la santa messa nei villaggi vicini, quali Loreto, Cetta, Creppo ed anche Gerbonte. In questa remota località l’avvocato Francesco Rossi aveva fatto costruire agli inizi del secolo XIX una cappella dotata di un piccolo campanile. I frati, anche per comunicare con i confratelli, misero su un allevamento di colombi in una località ancor oggi chiamata Colombera.

Il commissario visitatore dell’Ordine di San Francesco, in occasione di un sopralluogo effettuato nel 1846, rimase favorevolmente impressionato di fronte all’esemplare condotta dei religiosi, definendo quello di Triora “convento di perfetta vita comune”.

Soltanto vent’anni dopo giungeva, in verità non del tutto inaspettata, una drammatica notizia: il ministro Quintino Sella, con legge emessa il 7 luglio 1866, aveva deciso la soppressione di tutti gli istituti religiosi esistenti nel Regno d’Italia; i loro beni sarebbero stati convertiti in uno speciale fondo da destinare alle spese di culto ed alle pensioni ecclesiastiche. Nei locali del convento, acquisiti dal Comune con atto del 26 settembre 1868, ebbero sede le scuole del paese fino al 1871, anno in cui ai bistrattati frati venne concesso di rientrare nella loro dimora. Si pensava che la questione fosse definitivamente risolta con buona pace di tutti, quando, improvvisamente, accadde il “fattaccio”.

Il governo italiano, per difendere i confini della nazione dalla vicina Francia, con la quale correvano rapporti non proprio amichevoli, stabilì di installare un presidio militare a Triora, chiedendo al Comune di procurargli un ampio locale ed una piazza d’armi. Per quest’ultima non si esitò a demolire la secolare chiesa dei Santi Pietro e Marziano martiri, sede dell’antica Collegiata, che si trovava allora in condizioni critiche. I portali decorati trovarono collocazione nel camposanto, allestito proprio in quegli anni nel fortino, e sotto i portici dell’ospedale; le tre preziose tavole e gli oggetti più preziosi vennero trasferite nella Collegiata, altri oggetti e paramenti trovarono collocazione in altre chiese. Assieme ai muri vennero ridotti in frantumi anche i trecenteschi affreschi di Pietro Berto da Pieve di Teco, raffiguranti Dio Onnipotente e gli evangelisti, così firmati: “M.CCC.LXXIIII…tempore…de lavanda prepositi Trioriae Petrus Bertus de Plebe pinxit hoc opus”.

Restava da reperire un vasto edificio dove ospitare i soldati. Incredibilmente il sindaco Antonio Tamagni, incurante del parere contrario di molti consiglieri e della maggior parte della popolazione, cedette i locali della chiesa e del convento al Demanio Militare.

Piuttosto laborioso fu lo sgombero dei locali, avvenuto nell’aprile 1879, poiché nessun operaio dell’alta valle Argentina volle profanare quella chiesa, dove riposavano i loro illustri compaesani. Dovette intervenire un’impresa della riviera che poté adempiere al suo compito soltanto grazie all’intervento della forza pubblica. Non appena rimosse le lapidi marmoree del pavimento, si presentò agli operai ed alla folla inferocita che assisteva allo “scempio” uno spettacolo agghiacciante: una grande quantità di povere ossa umane accatastate l’una sull’altra e, fra queste, il cadavere di un frate, morto più di un secolo prima, rimasto incredibilmente intatto. Poco dopo un operaio cercò, inutilmente, di togliere il Crocefisso dall’altare, vanamente aiutato da alcuni compagni. La gente gridava sempre di più, con i più giovani ad invitare il popolo alla ribellione. Quando tutto pareva volgere al peggio, comparve il parroco di Triora, Giovanni Carli che, dopo aver invitato i fedeli alla calma, pronunciò una toccante omelia che a poco a poco placò gli animi. Terminata la predica, facendosi largo tra la folla attonita e commossa, si diresse verso l’altare e, con somma sorpresa degli astanti, staccò senza il minimo sforzo la croce, invitando i compaesani a prendere tutti i quadri e gli altri oggetti sacri e a seguirlo.

Quella che si svolse fu la processione più commovente che si sia mai verificata a Triora. Mentre le campane del convento suonavano per l’ultima volta – non a morto, ma a distesa – il parroco intonò inni di ringraziamento al cielo, subito accompagnato da centinaia, migliaia di voci. L’insolito corteo si diresse con passo solenne e maestoso verso la Collegiata. Qui don Carli pose la croce sull’altar maggiore, mentre i quadri e gli altri oggetti venivano appoggiati alla balaustrata. Dopo aver ringraziato il Signore per aver risparmiato un inutile spargimento di sangue, la gente, calmata, fece ritorno alle proprie case.

Con la partenza dei Francescani ebbe fine, in modo tragico seppur incruento, l’esperienza dei frati a Triora, sacrificati a misere esigenze locali. La gente rimpianse a lungo tempo quelle figure ormai familiari, colpevoli di non pretendere nulla, chiedendo soltanto di poter fare del bene. Un’anziana del borgo, intervistata alcuni anni fa nel corso di un evento legato alle ormai famose streghe di Triora, non ebbe alcuna remora a confessare: “Colpevoli dell’impoverimento e dello spopolamento del paese sono senz’altro i nostri vecchi; non per aver condannato a morte alcune streghe, ma per aver incautamente mandato via i frati!”.

Occorrerebbe un libro per citare tutte le cappellette, e geixette, le croci missionarie, i santini in nicchie, le semplici lastre marmoree costruite lungo tutti i sentieri e negli abitati. In seguito all’apparizione di Lourdes, vennero costruite un po’ ovunque cappelle e grotte con la statua della Vergine. A Triora esiste la “grotta di Lourdes”, costruita grazie ad una sottoscrizione popolare nel 1915. La forma originaria, in tufo, fu ampiamente modificata nel 1935 a causa di un improvviso crollo. I segni del tempo non tardarono a farsi sentire. Furono tre muratori del luogo, coadiuvati da un artigiano sanremese, a prestare gratuitamente la propria opera nel 1989, con il materiale messo a disposizione dalla generosità della gente. La grotta dei Pirenei è fedelmente riprodotta; qualcuno, durante la visita nel centro storico, vi sosta per un attimo, accendendo un lume o recitando una preghiera.

                                                                                       

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Sandro Oddo

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